giovedì 26 marzo 2020

Tudor Arghezi

Tudor Arghezi (pseudonimo di Ion Teodorescu) nacque a Bucarest nel 1880, da una famiglia di estrazione operaia. Fu poeta, romanziere, giornalista ed è unanimemente considerato il maggior poeta romeno del '900. Sperimentò la prigione nella prima guerra mondiale, il lager nazista nel corso della seconda e l'ostracismo culturale negli anni del cosiddetto "realismo socialista". Autore raffinato, dalle tematiche fortemente sociali, coltivò una poesia complessa ma nel contempo d'immediata fruibilità, in grado di essere letta e apprezzata da tutti. Esordì in letteratura relativamente tardi nel 1927 con la raccolta di liriche Accordi di parole, cui seguirono altri volumi di poesie: Fiori di muffa (1931), Foglie (1961), Nuove poesie (1963), Notte (1967), Rami (1970, postumo). I temi centrali della sua poesia, oltre quelli a carattere sociali come già accennato, sono l'appassionato e contraddittorio rapporto con il divino, l'uomo come creatore ed essere sociale, le cose e i sentimenti domestici.
Arghezi scrisse anche in prosa. In particolare ricordiamo i racconti ne La porta nera (1930), e i romanzi Icone su legno (1930), Il cimitero dell'Annunciazione (1936), I pianeti della fortuna (1946), Mondo vecchio, mondo nuovo (1958), Con il bastone per Bucarest (1961).

Tudor Arghezi morì a Bucarest nel 1967.


La poetica.

La poetica di Tudor Arghezi può essere considerata come una pietra miliare nell'evoluzione della poesia romena; essa ha rappresentato una vasta gamma di tematiche, introducendo nuovi universi estetici e concedendo uno status lirico a parole considerate "impoetiche". Il tema centrale nella poesia argheziana è la lucida inquietudine della coscienza, sempre tesa alla ricerca di risposte circa le umane domande sul senso della vita, della morte, così come sulla conoscenza, il rapprto tra l'uomo e Dio, ecc.
Nei versi dei "Psalmii", il poeta oscilla tra due atteggiamenti opposti, non sapendo quale strada scegliere.
Il dubbio lo pone continuamente in lotta tra la fede e la sua negazione, tra la certezza e l'incertezza, la ribellione e la rassegnazione, la forza e la fragilità. La sofferenza del poeta è causata dall'assenza del divino, dalla consapevolezza nell'uomo della sua solitudine nell'universo, dall'essere preda dell'impotenza e dell'imperfezione.
Arghezi sa di non poter invocare la divinità, pur sapendo che non riceverà, comunque, alcuna risposta. Da qui nasce il dramma del poeta, causandogli un senso di futilità e di delusione. Tudor Arghezi rimane essenzialmente un poeta del dubbio. Il suo equilibrarsi tra la tenace preghiera e la negazione, non lo definisce di certo come uno "spirito non religioso", ma neppure lo rende un "poeta della fede". Arghezi non crede, ma è ostinatamente alla ricerca del sacro, rifiutando di accettare la prospettiva del nulla. Anche se l'amore per la divinità è palese, spesso non agisce con lo spirito del poeta cristiano e obbediente.
Un altro aspetto della poesia di Arghezi riguarda il destino dell'artista. Egli si domanda se l'artista deve impegnarsi per la creazione o, invece, vivere una vita normale come qualsiasi mortale. Nella concezione di Arghezi l'uomo e Dio hanno in comune la capacità di creare. Il poeta, con la sua arte, si stacca, in tal modo, dagli altri suoi simili, avvicinandosi alla condizione di (quasi) divinità.
Molte poesie sono incentrate sul tema della morte:  "Niciodata toamna", "Duhovniceasca", "De-a v-ati ascuns", "Intoarcere-n tarana", e "Ceasul de apoi". Se nei "Psalmii" traspare l'oscillazione dell'atteggiamento verso il divino, che va, appunto, dall'adulazione alla contestazione, per quanto riguarda la morte, il suo pensiero nel non accettarla è unitario. In questo senso egli si distingue da quegli scrittori romeni che vedono nella morte una predestinazione naturale alla pace suprema. Così la morte non significa per Arghezi riconciliazione romantica con il nulla, ma una sorta di attacco continuo alla veglia della coscienza. Egli vede la vita come un gioco il cui scopo ultimo rimane sconosciuto.
Arghezi ha uno spirito inquieto, problematico, che tende a guardare tutto con lucidità: vita, morte, divinità. Cercando di raggiungere il trascendente, dà alla sua poesia una tensione unica incentrata sull'espressione del culto e del lamento senza fine.
Concludendo, l'opera argheziana ha un valore altissimo per la letteratura romena e per questo è stata tradotta in molte lingue da diverse personalità della letteratura mondiale (Salvatore Quasimodo, Rafael Alberti, Ianis Ritsos, ecc.). La sua produzione poetica può essere valutata e confrontata in termini di valore con quella di famosi poeti quali: R. M. Rilke, Garcia Lorca, Paul Claudel, Paul Eluard, ecc.



Due poesie di Tudor Arghezi nella traduzione di Salvatore Quasimodo.

TESTAMENTO

Alla mia morte ti lascerò i miei versi:
non altro che un nome, chiuso in un libro.
Nelle tenebre in rivolta,
che dai miei avi arrivano fino a te,
i miei padri strisciarono come animali
lungo dirupi e precipizi,
che ora aspettano te, mio giovane figlio:
il mio libro è un gradino per risalirli.

Mettilo a capo del letto
con devota pietà: è la carta più antica
della liberazione
di voi servi dai rozzi mantelli
pieni delle ossa riversate in me.

Ora possiamo mutare per la prima volta
la zappa con la penna e il solco in calamaio
perché i nostri avi, tra i buoi dorati,
raccolsero il sudore
del lavoro di centinaia d'anni.
Dalle loro voci che incitavano gli armenti
ho creato misure, accordi di parole
e culle per i padroni futuri: e per migliaia di settimane,
lavorandole come il pane, le ho trasformate
in sogni e icone. Dagli stracci
sbocciarono gemme e ghirlande.
Ho mutato in miele il veleno ricevuto,
lasciando intero il suo dolce potere.
Filando lievemente l'offesa
ne ho fatto persuasione e bestemmia.
Ho preso dal focolare la cenere dei morti
per alzare un dio di pietra,
alto confine con due mondi di pendii
che vegli in cima al tuo dovere.

Il nostro dolore sordo e amaro
l'ho raccolto su un solo violino:
il padrone ballò alle sue note
come un capro che viene sgozzato.
Dalle piaghe dalle muffe dal fango
ho fatto nascere bellezza e nuovi valori.
I colpi di frusta si mutano
in parole lente, castigatrici
che perdonano ai figli
il delitto che fu di tutti.
Questa è la giustizia resa al ramo
oscuro uscito dalla foresta al sole,
ramo da cui spunta come grappolo di nèi
il frutto della pena di tutta l'eternità.

Pigramente sdraiata sul divano
la giovane principessa
soffre dentro il mio libro.
La parola di fuoco e quella formata ad arte
si uniscono nella pagina come
la tenaglia abbraccia il ferro rovente.
Il servo l'ha scritta, il signore la legge
e non vede che nel suo profondo
c'è tutta la collera dei miei antenati.



FIORI DI MUFFA

Scritti con l'unghia sull'intonaco,
dentro una nicchia vuota,
al buio, in solitudine,
con le mie forze,
senza aiuto
del toro del leone o dell'aquila
che lavorarono
con Luca, Marco e Giovanni.
Sono versi senza data
versi tombali
di sete d'acqua
e fame di cenere,
versi di oggi.
Quando si è spezzata l'unghia d'angelo
ho aspettato che crescesse,
ma non è più spuntata
o non l'ho riconosciuta.
Era buio. Fuori, lontano, scrosciava la pioggia.
La mano come artiglio dolorava
e non poteva muoversi.
Ho dovuto scrivere con le unghie della sinistra.

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