venerdì 27 marzo 2020

Ungaretti e la casa dei Thuile

L’inizio dell’amicizia con i fratelli Jean-Léon e Henri Thuile è fatta risalire da Ungaretti al 1907 o 1908, ma molto probabilmente va posticipata al 1911, 1912. I fratelli Thuile erano letterati e ingegneri. Jean-Léon era romanziere e Ungaretti ricorda di lui Les trio des damnés e L’eudémoniste; Henri, invece, era poeta, autore di La lampe de terre, versi dedicati alla moglie scomparsa, sempre apprezzati da Ungaretti. Erano figli dell’ingegnere capo per i porti e i fari d’Alessandria, morto per cause accidentali all’Esposizione Universale di Parigi prima dell’amicizia dei tre giovani. Nel suo incarico venne sostituito da Monsieur Gaston Jondet, che proprio così scoprì il porto sepolto, di età faraonica, capace di ospitare una flotta intera, secondo quanto Ungaretti scrisse nel Quaderno egiziano. Il porto di Faros era un’idea colossale di ingegneria, con frangiflutti rettilinei di una lunghezza di due chilometri. Di qui sbocciò il titolo della raccolta delle poesie nate in guerra, Il Porto Sepolto, simbolo di “ciò che di segreto rimane in noi indecifrabile”.
I Thuile evevano ereditato dal padre una fornita biblioteca romantica e l’avevano arricchita di opere contemporanee. Ungaretti si recava a casa loro ogni settimana; abitavano fuori Alessandria, al Mex, in una costruzione di legno in riva al mare e all’orlo del deserto che porta in Libia: “Casa a tentoni / da una parte troppo mare / troppo deserto dall’altra”, così la ricorda Ungaretti. Jean-Léon ricordava che le discussioni letterarie fra di loro vertevano su Claudel, Verlaine, Rimbaud, Péguy, Apollinaire. In Quaderno egiziano c’è il ricordo ungarettiano più significativo dei due fratelli; fra l’altro vi si legge: “Al Mex mi legano anche gli ultimi anni che ho trascorso in Egitto, prima di staccarmene nel 1912”. La casa dei Thuile “pareva la casa degli spiriti. Una casa ibseniana in Affrica… Possedevano le pubblicazioni più notevoli e più rare di tutto l’Ottocento e le recenti, rilegate con lusso quasi maniaco, allineate in una stanza immensa. La scoperta di questa Mecca del libro fu per me una gioia che solo può immaginare chi, cresciuto per forza di circostanze lontano dal centro intellettuale ch’egli ritiene proprio, si sia abituato a vederlo come un miraggio… Quell’ebrezza che dava la lettura, sui tappeti silenziosi, accompagnata dai colpi d’ala del vento sulle onde, la riproverò mai?”.


Tratto da: "Album Ungaretti" - Ed. Mondadori

giovedì 26 marzo 2020

Tudor Arghezi

Tudor Arghezi (pseudonimo di Ion Teodorescu) nacque a Bucarest nel 1880, da una famiglia di estrazione operaia. Fu poeta, romanziere, giornalista ed è unanimemente considerato il maggior poeta romeno del '900. Sperimentò la prigione nella prima guerra mondiale, il lager nazista nel corso della seconda e l'ostracismo culturale negli anni del cosiddetto "realismo socialista". Autore raffinato, dalle tematiche fortemente sociali, coltivò una poesia complessa ma nel contempo d'immediata fruibilità, in grado di essere letta e apprezzata da tutti. Esordì in letteratura relativamente tardi nel 1927 con la raccolta di liriche Accordi di parole, cui seguirono altri volumi di poesie: Fiori di muffa (1931), Foglie (1961), Nuove poesie (1963), Notte (1967), Rami (1970, postumo). I temi centrali della sua poesia, oltre quelli a carattere sociali come già accennato, sono l'appassionato e contraddittorio rapporto con il divino, l'uomo come creatore ed essere sociale, le cose e i sentimenti domestici.
Arghezi scrisse anche in prosa. In particolare ricordiamo i racconti ne La porta nera (1930), e i romanzi Icone su legno (1930), Il cimitero dell'Annunciazione (1936), I pianeti della fortuna (1946), Mondo vecchio, mondo nuovo (1958), Con il bastone per Bucarest (1961).

Tudor Arghezi morì a Bucarest nel 1967.


La poetica.

La poetica di Tudor Arghezi può essere considerata come una pietra miliare nell'evoluzione della poesia romena; essa ha rappresentato una vasta gamma di tematiche, introducendo nuovi universi estetici e concedendo uno status lirico a parole considerate "impoetiche". Il tema centrale nella poesia argheziana è la lucida inquietudine della coscienza, sempre tesa alla ricerca di risposte circa le umane domande sul senso della vita, della morte, così come sulla conoscenza, il rapprto tra l'uomo e Dio, ecc.
Nei versi dei "Psalmii", il poeta oscilla tra due atteggiamenti opposti, non sapendo quale strada scegliere.
Il dubbio lo pone continuamente in lotta tra la fede e la sua negazione, tra la certezza e l'incertezza, la ribellione e la rassegnazione, la forza e la fragilità. La sofferenza del poeta è causata dall'assenza del divino, dalla consapevolezza nell'uomo della sua solitudine nell'universo, dall'essere preda dell'impotenza e dell'imperfezione.
Arghezi sa di non poter invocare la divinità, pur sapendo che non riceverà, comunque, alcuna risposta. Da qui nasce il dramma del poeta, causandogli un senso di futilità e di delusione. Tudor Arghezi rimane essenzialmente un poeta del dubbio. Il suo equilibrarsi tra la tenace preghiera e la negazione, non lo definisce di certo come uno "spirito non religioso", ma neppure lo rende un "poeta della fede". Arghezi non crede, ma è ostinatamente alla ricerca del sacro, rifiutando di accettare la prospettiva del nulla. Anche se l'amore per la divinità è palese, spesso non agisce con lo spirito del poeta cristiano e obbediente.
Un altro aspetto della poesia di Arghezi riguarda il destino dell'artista. Egli si domanda se l'artista deve impegnarsi per la creazione o, invece, vivere una vita normale come qualsiasi mortale. Nella concezione di Arghezi l'uomo e Dio hanno in comune la capacità di creare. Il poeta, con la sua arte, si stacca, in tal modo, dagli altri suoi simili, avvicinandosi alla condizione di (quasi) divinità.
Molte poesie sono incentrate sul tema della morte:  "Niciodata toamna", "Duhovniceasca", "De-a v-ati ascuns", "Intoarcere-n tarana", e "Ceasul de apoi". Se nei "Psalmii" traspare l'oscillazione dell'atteggiamento verso il divino, che va, appunto, dall'adulazione alla contestazione, per quanto riguarda la morte, il suo pensiero nel non accettarla è unitario. In questo senso egli si distingue da quegli scrittori romeni che vedono nella morte una predestinazione naturale alla pace suprema. Così la morte non significa per Arghezi riconciliazione romantica con il nulla, ma una sorta di attacco continuo alla veglia della coscienza. Egli vede la vita come un gioco il cui scopo ultimo rimane sconosciuto.
Arghezi ha uno spirito inquieto, problematico, che tende a guardare tutto con lucidità: vita, morte, divinità. Cercando di raggiungere il trascendente, dà alla sua poesia una tensione unica incentrata sull'espressione del culto e del lamento senza fine.
Concludendo, l'opera argheziana ha un valore altissimo per la letteratura romena e per questo è stata tradotta in molte lingue da diverse personalità della letteratura mondiale (Salvatore Quasimodo, Rafael Alberti, Ianis Ritsos, ecc.). La sua produzione poetica può essere valutata e confrontata in termini di valore con quella di famosi poeti quali: R. M. Rilke, Garcia Lorca, Paul Claudel, Paul Eluard, ecc.



Due poesie di Tudor Arghezi nella traduzione di Salvatore Quasimodo.

TESTAMENTO

Alla mia morte ti lascerò i miei versi:
non altro che un nome, chiuso in un libro.
Nelle tenebre in rivolta,
che dai miei avi arrivano fino a te,
i miei padri strisciarono come animali
lungo dirupi e precipizi,
che ora aspettano te, mio giovane figlio:
il mio libro è un gradino per risalirli.

Mettilo a capo del letto
con devota pietà: è la carta più antica
della liberazione
di voi servi dai rozzi mantelli
pieni delle ossa riversate in me.

Ora possiamo mutare per la prima volta
la zappa con la penna e il solco in calamaio
perché i nostri avi, tra i buoi dorati,
raccolsero il sudore
del lavoro di centinaia d'anni.
Dalle loro voci che incitavano gli armenti
ho creato misure, accordi di parole
e culle per i padroni futuri: e per migliaia di settimane,
lavorandole come il pane, le ho trasformate
in sogni e icone. Dagli stracci
sbocciarono gemme e ghirlande.
Ho mutato in miele il veleno ricevuto,
lasciando intero il suo dolce potere.
Filando lievemente l'offesa
ne ho fatto persuasione e bestemmia.
Ho preso dal focolare la cenere dei morti
per alzare un dio di pietra,
alto confine con due mondi di pendii
che vegli in cima al tuo dovere.

Il nostro dolore sordo e amaro
l'ho raccolto su un solo violino:
il padrone ballò alle sue note
come un capro che viene sgozzato.
Dalle piaghe dalle muffe dal fango
ho fatto nascere bellezza e nuovi valori.
I colpi di frusta si mutano
in parole lente, castigatrici
che perdonano ai figli
il delitto che fu di tutti.
Questa è la giustizia resa al ramo
oscuro uscito dalla foresta al sole,
ramo da cui spunta come grappolo di nèi
il frutto della pena di tutta l'eternità.

Pigramente sdraiata sul divano
la giovane principessa
soffre dentro il mio libro.
La parola di fuoco e quella formata ad arte
si uniscono nella pagina come
la tenaglia abbraccia il ferro rovente.
Il servo l'ha scritta, il signore la legge
e non vede che nel suo profondo
c'è tutta la collera dei miei antenati.



FIORI DI MUFFA

Scritti con l'unghia sull'intonaco,
dentro una nicchia vuota,
al buio, in solitudine,
con le mie forze,
senza aiuto
del toro del leone o dell'aquila
che lavorarono
con Luca, Marco e Giovanni.
Sono versi senza data
versi tombali
di sete d'acqua
e fame di cenere,
versi di oggi.
Quando si è spezzata l'unghia d'angelo
ho aspettato che crescesse,
ma non è più spuntata
o non l'ho riconosciuta.
Era buio. Fuori, lontano, scrosciava la pioggia.
La mano come artiglio dolorava
e non poteva muoversi.
Ho dovuto scrivere con le unghie della sinistra.

domenica 22 marzo 2020

Giorgio Caproni: Sulla poesia







Quando fanciullo io venni / a pormi con le Muse in disciplina, tentando i miei primi balbettii poetici nel modesto “scagno” di mio padre, in quella genovesissima Piazza della Commedia immersa nei trambusti mercantili del Porto, davvero non avrei mai osato immaginare o sognare di dover un giorno, in una città di così austere e luminose tradizioni culturali e civili qual è Urbino, e in un’Università tra le più celebrate d’Italia e del mondo, ricevere un alloro il cui inestimabile valore, confesso, non solo – comme de juste – mi fa gonfiar le penne, ma doviziosamente viene a ricompensare, e nel modo meno sperato, i patimenti sofferti nella mia già troppo lunga esistenza, tutta spesa – in epoca storica dissestatissima – in difesa di un ideale (mi si conceda questo termine oggi desueto) che credo, nei limiti delle mie forze, di non aver mai tradito.

Debbo così aggiungere, all’emozione, la commozione più viva, resa tanto maggiore se penso che a reggere questa Università (Regina Universitarium) sta proprio Carlo Bo, il Maestro dell’intera generazione cui appartegno (e cui egli stesso appartiene), il quale non si è mai stancato, in anni tristissimi e durissimi per tutti, di additarci una via di salvezza nella letteratura intesa come vita: nella vita intesa come scoperta o costruzione della propria anima. (Altra parola – anima – oggi, ahimé, caduta in disuso).

Detto questo, che altro aggiungere per esprimere, sia pur con timore e tremore, il mio stato d’animo in questo solenne momento del mio essere?

Purtroppo, non sono tagliato per i discorsi ufficiali. La veste ufficiale – credo visibilmente – è troppo ampia per la mia magra persona.

Forse, dato che non riconosco in me altro “merito” (e dico merito tra virgolette) oltre quello della ricerca della poesia, dovrei dir qualcosa sul mio modo di comporre versi: dovrei insomma parlare, almeno un poco, della mia poesia. Vi rinuncio, perché questo equivarrebbe a parlare del concetto che io ho di poesia: cioè a parlare della poesia stessa.

Non possiedo un laboratorio mentale abbastanza attrezzato allo scopo, o comunque adeguato alle illustri Personalità qui Presenti.

Forse, non sono che un modesto artigiano.

Non credo che l’antico vasaio si preoccupasse troppo di discettare con teoretica esattezza intorno alla natura e all’essenza di un vaso. Si preoccupava, piuttosto, di modellar vasi che fossero, quanto più possible, “vasi” nel senso della bellezza oltre che in quello dell’utilità: in senso estetico e funzionale, si direbbe oggi.

Definire che cos’è la poesia non è mai stato nelle mie aspirazioni, pur se più d’una volta m’è capitato di dover precisare in che consista, secondo me, la profonda differenza tra linguaggio di normale comunicazione e linguaggio poetico.

Mi rifaccio al proposito a un mio vecchio scritto del l’immediato dopoguerra, dove – quando in Italia non era ancora di pubblico dominio né la semiotica né la linguistica – io, del tutto a lume di naso o quasi, inventavo, per mio privato uso e consumo… l’ombrello.

Linguaggio pratico e linguaggio poetico (cerco di riassumere quelle mie remote affirmazioni) usano, è vero, lo stesso codice di convenuti segnali (e proprio di codici e di segnali, io ignaro, già parlavo allora). Ma mentre nel linguaggio pratico il segnale acustico o grafico della parola resta stretto alla lettera e alla pura e semplice informazione, nel linguaggio poetico la parola stessa conserva, sì, il proprio senso letterale, ma anche si carica di una serie pressoché infinita di significati “armonici” (e dico armonici usando il termine com’è usato nella fisica e nella musica) che ne forma sua peculiare forza espressiva.

Farò un esempio molto grossolano.

Mi trovo in una caserma, dove ancora i segnali vengono trasmessi da una cornetta. La cornetta squilla il segnale del rancio, e il marmittone che conosce il codice prende la gavetta (allora – quando scrivevo queste cose – si usava ancora la gavetta) e si allinea nel cortile per ricevere la “sbobba”. Ma supponiamo che un estroso ufficiale di pichetto, invece dalla solita cornetta, faccia suonare quello stesso segnale da un virtuoso di flauto.

Il soldato, sì, capisce che quello è il segnale del rancio, ma anche sente qualcosa d’altro (il valore musicale di quel segnale: il significante, si direbbe oggi), e certamente resterà interdetto (incantato ad ascoltarlo), anziché precipitarsi alla chiamata.

Ricorrerò a un altro esempio, meno pedestre o dozzinale, pur se sempre approssimativo.

Prendiamo gli stupendi versi: Felice te che il regno ampio dei venti, / Ippolito, ai tuoi verdi anni correvi.

Sul piano della normale communicazione, ben poco dicono: “Felice te che da giovane navigavi tanto”. Ma sul piano della poesia, quale profondo e ineguagliabile Musica, e quale forza espressiva!

Arrivo addirittura a dire, a questo proposito, che la lingua condiziona in certo senso il poeta.

Se Racine fosse stato italiano, o meglio se avesse scritto in italiano, chissà che avrebbe detto in luogo di La fille de Minos et de Pasiphaé, verso giustamente celeberrimo per la ricchezza espressiva della sua musica, quanto del tutto comunissimo come semplice informazione. (Un dato anagrafico, nulla di più).

Eppoi, nel linguaggio poetico, la funzione della rima, quando se ne vuol far uso. Una funzione non certo esornativa, tanto per carezzare l’orecchio, ma una funzione portante, pari a quella delle consonanze e dissonanze in polifonia, o, in architettura, a quella delle colonne che reggono l’arco. Idea che chiama idea, magari per generare una terza idea taciuta.

Si leggano soltanto le rime dell’incipit della Comedia: la vita (la via) smarrita; la selva (la paura) dura, oscura. Si ha già la chiave del primo Canto dell’Inferno.

È per questa peculiarità del linguaggio poetico che anch’io sto dalla parte che ritiene intraducibile la poesia, e di chi crede pressoché impossibile la sua riduzione in termini logici.

Basta spostare un vocabolo – un accento – e l’incanto è rotto. Viene a mancare, appunto, l’energia espressiva della Musica. Della Musica, dico, non della musicalità. E quindi resta polverizzata la poesia: il valore espressivo che la parole assume, con la musica, oltre il senso letterale, caricandosi o arricchendosi di quella pluralità di significati (di risonanze mentali) da me fa poco fa chiamati gli “armonici”.

Mi si consenta una parentesi. Non voglio certamente affermare, con questo, che il poeta non debba avere un suo pensiero e una sua “visione del mondo”, e che gli basti la musica per far poesia. Voglio semplicemente ribadire ch’è soprattutto in virtù della musica della parola ch’egli riesce a suscitare nel lettore – più che a comunicare per via diretta – le proprie emozioni e riflessioni: le proprie idee.

Ragione di più – se non proprio ragione prima – perché un testo poetico concepito in una determinata lingua, e perciò appartenente a una determinata cultura, non possa esser fotocopiato in altra lingua: ossia nell’ambito di una diversa cultura o tradizione.

Al massimo, se il traduttore è un poeta, può nascere (come un figlio che tenga dell’uno e dell’altro genitore) un testo che pur rassomigliando alla personalità del tradotto e a quella del traduttore, non è precisamente né l’uno né l’altro.

Il problema si fa ancore più arduo, quando si tenta il trasporto da una civiltà d’oggi o della nostra regione culturale. È un problema – sia detto di sfuggita – che trovo toccato con estrema acutezza e precisione in una nota apposta da Bruno Gentili (‘La traduzione dei lirici. Osservazioni sul problema del tradurre’) al suo recente Poesia e pubblico nella Grecia antica, libro all’unanimità riconosciuto di fondamentale importanza, profondo quanto originalissimo nella sua autonoma e davvero nuova impostazione.

Come mai, mi domando allora, nonostante tali mie convinzioni, ho tradotto tanto? È una domanda che in anticipo rifiuta, non occorre dirlo, ogni risposta di tipo utilitario, filantropia culturale compresa. Ma in sostituzione, quale risposta giusta esige? Da parte mia non so darla, e di questo davvero arrossisco, giacché non vi è nulla più anacronistico, in quest’era in cui tutto s’è tramutato in scienza o raziocinio, d’uno che par rimasto, come me, all’epoca della caverna, o che ancora ragiona come avrebbe ragionato un artigiano dell’età comunale. Evidentamente m’è restata una mentalità arcaica, borghigiana. Dirò soltanto che in me la spinta a tradurre, identica all’urgenza del mio scrivere in proprio, forse è nata dalla certezza che ogni poeta vero, più che inventare, scopre: desta e pone in luce in noi – per dirla con René Char – dei bouts d’existence. Talché anche nell’atto della traduzione (né sembri un paradosso) chi scopre non è il traduttore, ma il poeta che vien tradotto, il quale investendo il traduttore del suo potere, suscita in lui, e in lui rende diurno, ciò che già era in lui, ma dormiente: notturno; e questo in quanto ogni poeta è un uomo e il suo mondo è quello dell’uomo; e tutto il piacere del traduttore (se piacere può dirsi) , tutta l’impellente attrazione che lo induce a tradurre, concsiste nel sentire e godere, grazie a quel certo testo, un allargamento nel campo della propria esperienza e coscienza: del proprio essere o esistere, più che del conoscere.

Passando ad altro, sempre in tema di poesia, ma non più soltanto di linguaggio poetico.

Mia ambizione, o vocazione, è sempre stata quella di riuscire, attraverso la pratica del verso, a trovare, cercando la mia, la verità di tutti. O, per esser più modesti e precisi, una verità (una delle tante verità ipotizzabili) che possa valere non soltanto per me ma anche per tutti gli altri mèzigues (o <<me stessi>>) che formano il prossimo (l’Altro, diciamo pure), del quale io non sono che una delle tante cellule viventi.

Il poeta è un minatore. È poeta colui che riesce a calarsi più a fondo in quelle che il grande Machado definiva las secretas galerìas del alma, e lì attingere quei nodi di luce che, sotto gli stratti superficiali diversissimi da individuo a individuo, sono comuni a tutti anche se non tutti ne hanno conoscenza.

L’esercizio della poesia rimane puro narcisismo finché il poeta si ferma ai singoli fatti esterni della propria esistenza o biografia. Ma ogni narcisismo cessa non appena il poeta, partendo dai laterizi delle proprie personali esperienze, a costruendo con tali laterizi le proprie metafore, riesce a chiudersi e a inabissarsi talmente in se stesso da scoprirvi, ripeto, e portare a giorno, quei nodi di luce che sono non soltanto dell’io, ma di tutta intera la tribù. Quei nodi di luce che tutti i membri della tribù possiedono, ma che non tutti i membri della tribù sanno di possedere, o riescono a individuare.

Mi par che sia stato Proust a dirlo: quando uno legge un poeta, in fondo non fa che legger se stesso. Quel poeta ha raggiunto nel profondo di se stesso una verità che vale per tutti, e che già, come la Bella addormentata nel bosco, sonnecchiava in tutti, in attesa del Principe capace di svegliarla.

E si arriva così al paradosso che quanto più il poeta si immerge nel pozzo del proprio io, tanto più egli allontana da sé ogni facile accusa di solipsismo: appunto perché in quella profondissima zona del suo io, è il noi: un io che, dalla singolarità, passa immediatamente alla pluralità. La funzione sociale – civile – della poesia, sta, o dovrebbe stare, appunto in questo.

Un’ultima considerazione vorrei aggiungere, prima di chiudere. Poesia significa in primo luogo libertà. Libertà e disobbedienza di fronte a ogni forma di sopraffazione o di annullamento della persona: di fronte a ogni forma di irreggimentazione o, peggio, di massificazione. La socieà in cui viviamo minaccia con sempre maggior pesantezza i più elementari diritti del singolo: minaccia la distruzione totale del privato (della persona), per ridurre gli individui a una somma di “consumatori”, ai quali – nell’imperante mercificazione anche di quelle che una volta venivano chiamate le aspirazioni spirituali – si vorrebbero imporre bisogni artificialmente creati per alimentare una macchina economica che trae a sé tutto il profitto, a pieno scapito d’ogni scelta interiore.

Il poeta è il più deciso oppositore, per sua propria natura, di tale sistema. È il più strenuo difensore della singolarità, rifiutando d’istinto ogni parola d’ordine. E per questo il sistema lo avversa, sia ignorandolo o fingendo d’ignorarlo, sia cercando di minimizzarne la figura con l’arma della sufficienza e dell’ironia.

Ho fisse in mente queste parole di Kierkegaard: “Si è abolito il Cristianesimo, perché dappertutto si è ricacciata indietro la personalità. Pare che si tema che l’Io debba essere una specie di tirannia e che per questo ogni Io debba essere livellato e nascosto…”.

A distanza di ben oltre un secolo, sono parole di una terrificante attualità, cui è impossibile non aggiungere con un brivido – quasi contemporanee – le altre del Leopardi, profetizzanti un’”età delle macchine”, così detta “non solo perché gli uomini d’oggidì procedono e vivono forse più meccanicamente di tutti i passati, ma eziandio” perché “ormai non gli uomini ma le macchine, si può dire, trattono le cose umane e fanno le opere della vita”, fino a “venire a comprendere oltre che le cose materiali, anche le spirituali”. Ma ecco che a vincere in me la desolante tentazione di una totale chamade, ecco che in questa nostra civiltà o cultura così asimmetrica e friabile (e ahimé così crudele nella sua bêtise di fondo), giunge a mio sommo conforto l’odierna austera cerimonia, in cui mi compiaccio di vedere, oltre che il più ambito anche se immeritatissimo coronamento della mia lunga – e mi si permetta di dire mai alterate – fedeltà alla poesia stessa, che in sé assomma tutti i più alti valori del Spirito.

Anche per questo – e soprattutto per questo – mi si conceda di rinnovare la mia gratitudine immensa verso l’Universià e la città di Urbino, chiedendo venia per la pochezza delle mie parole, certissimamente incapaci di esprimere intero, insieme col più profondo turbamento, l’intimo giubilo e orgoglio.

Giorgio Caproni


(Univrsità di Urbino , 1 dicembre 1984: trascrizione dell’intervento tenuto delll’autore in occasione dell’assegnazione della Laurea Honoris Causa).

venerdì 13 marzo 2020

Suggerimenti di lettura




Il 26 ottobre 1932 Stalin si presenta a una riunione di scrittori a casa di Maksim Gor'kij.
"I nostri carri armati non valgono niente", dice, "se le anime che devono guidarli sono di argilla".
Spetta agli scrittori, "ingegneri di anime", forgiare l'uomo nuovo sovietico. Nasce così l'estetica proletaria della costruzione e della produzione, utile per celebrare quelle colossali opere idraulico-ingegneristiche dei piani quinquennali che, grazie al lavoro forzato dei Gulag, stanno domando la "nemica" natura del territorio sovietico. 
Dalla lettura di un libro di Konstantin Paustovskij del 1932, prende le mosse il viaggio narrato in ingegneri di anime, che porta l'autore dalle rovine industriali del golfo di Kara-Bogaz fino al canale Belomor, il progetto che il collettivo di scrittori guidato da Gor'kij fu chiamato a cantare come "storiografia istantanea del socialismo". Westerman ricostruisce con queste scorrevoli pagine il rapporto tra potere e artisti, e il loro sforzo di trovare una possibile intesa tra diktat e ispirazione.

Frank Westerman, Emmen (Paesi Bassi), 1964, giornalista e inviato a Belgrado, Mosca e nelle zone più calde del pianeta. 

giovedì 12 marzo 2020





(da: Luminol - 2018)

Nota a margine


Ciò ed altro ancora
oggi sappiamo
non esser vero.

Labbiamo creduto
per un tempo irripetibile
e le schiere dei morti
languiscono senza sapere.

Fino ad allora
tutta non sera
evoluta linconoscenza.


(da: Vocianti - 2010)

lunedì 9 marzo 2020

Il senso della Cioran-Renaissance

Il senso della Cioran-Renaissance: La riscoperta del filosofo romeno, che può dire molto dell’Europa di oggi. Le lettere all'amico Petrica (Petre Țuțea).



domenica 8 marzo 2020

"Cine vrea să explice totul prin cuvinte 
ajunge curând să nu poată explica nimic".

"Chi vuole spiegare tutto con le parole, 
giungerà presto a non poter più spiegare nulla".
(Liviu Rebreanu)


RebreanuLiviu. - Scrittore e giornalista romeno (Târlişina, Năsăud, 1885 - Valea Mare, Piteşti, 1944). 
Esordì con raccolte di novelle: Frământări ("Tormenti", 1912); Golanii ("I vagabondi", 1916); Răfuiala ("La resa dei conti", 1919); Calvarul ("Il Calvario", 1919). Grande successo ebbe il romanzo Ion ("Giovanni", 1920), quadro di vita sociale in un villaggio transilvano. Seguì Pădurea spânzurailor ("La foresta degli impiccati", 1922), che ha per tema il conflitto mondiale ed è uno fra i migliori romanzi psicologici della letteratura romena; i romanzi Ciuleandra (1927) e Crăişorul ("Il principino", 1929) dimostrano notevole forza epica, al pari di Răscoala ("La rivolta", 1932), vasto affresco delle sommosse contadine del 1907. Discrete le due commedie Plicul ("La bustarella", 1923) e Apostolii ("Gli Apostoli", 1926). Morì suicida.


Ci voltiamo a una voce

               Ci voltiamo a una voce
o ad altro che le somigli
come il sibilo del vento
le note di un violino
le grida di una gabbiana
alla luce dellalba.
            
               Ci voltiamo a una voce
per poterci fermare
esaminare la posizione
misurare la nostalgia
di quellultima piana
col metronomo del cuore.
            
               Ci voltiamo a una voce
per non sentirci soli
incrociare lo sguardo
distratto del passante
convincendoci la mente
che quella è la strada.
            
               Ci voltiamo a una voce
lo stesso senza udirla
(o estraneo a noi quel timbro)
quel gesto come di natura
sperandoci alle spalle
lincitamento di Dio.


(da: Vocianti - 2010)

Sinusoide


Lo credevamo già
– nell’approssimarci – d’essere giunti
alla fermata dell’umanesimo.
Allo svelamento della nozione
che ci è propria.
Poi – girato l’angolo –
punto

e un’altra volta a capo.



(da: Il venditore di suoni tattili - 2007)

sabato 7 marzo 2020


Dualismo

Lo segue fluttuare
per strade di fortuna.
Lo segue – il corpo –
quell’Io padrone.

Poiché carne –
mortificato dalla polvere
avvizzisce.
Invecchia nell’ammasso.
I muscoli s’accorciano sulle ossa
e al trotto
rompe il passo.

Ma l’Io lo incalza.
Lo sprona.
Vuole – non capendo –
restaurare la condizione
che lo incarni come è – essendo.

Vuole – l’Io di sé –
eterna significazione.


(da: Il venditore di suoni tattili - 2007)

La giostra

con il tempo bello
la domenica pomeriggio andavamo al Valentino
e sempre facevamo tappa con i miei
dove stava la giostra.

mio padre ci sedeva me e mio fratello
nella stessa diligenza imbullonata al pavimento

ma io non amavo quel carosello festaiolo
il suo monotono ruotare
lo sfarzo dei colori
le note dolciastre che ci mormoravano per quei tre minuti.

io spiavo le rosse
sgangherate macchinette a pedali
della vecchina col banchetto allato del vespasiano.

andavano sciolte
come pecorelle al campo
qualcuna – osando – s’allontanava
e io la seguivo con lo sguardo rimpicciolirsi
zigzagando
oltre l’afrore di piscio.


(da: Luminol - 2018)



In exitu

Quando le nostre agende
sono fitte ormai d’un gran numero di indirizzi
- soprascritti più volte

come ladri profaniamo quelle stanze
spogliandole del vissuto
e delle ricordanze. Poi
                                     
da un rigattiere portiamo la miserabile impresa
e con poche monete di sputo
alla vita saldiamo l'offesa. 


Da: Il venditore di suoni tattili (2007)

Scrivere di Miguel Hernández. Il paesaggio. La famiglia. L'infanzia

Miguel Hernández   Sarebbe infruttuoso, se non impossibile, scrivere di Miguel Hernández senza dapprima accennare al paesaggio di Orihuela, ...